Articoli su Giovanni Papini

1927


Vito Giuseppe Galati

Papini artista

Pubblicato in: Il Baretti, anno IV, num. 3, pp. 17-18
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Data: marzo 1927



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II

Artista su misura

   Artista, più che filosofo, il Papini si era sempre creduto. Ma davvero se ne convinse tardi nonostante le sue dichiarazioni. Il primo stock novellistico è troppo connesso allo stock pseudo-filosofico perchè di arte si possa veramente parlare. Riferendosi a queste sue cose egli scrive che «sono, in tutto, sessanta novelle o fantasie o sfoghi o capricci o divertimenti — ineguali come fondo o valore ma che a me piace considerare come una filza unica di “memorie indirette„ sulle cangianze del mio spirito nei dieci anni decisivi della seconda formazione» (Parole c sangue, VIII). Veramente le «cangianze» del Tragico quotidiano, del Pilota, di Parole e sangue e — peggio ancora — di Buffonate, non sono che illusorii giochi ottici per cui lo stesso motivo che indicammo nei libri esaminati è ripresentato come diverso e nuovo.
   Gli scritti del Tragico quotidiano e del Pilota cieco furono composti, scrive sempre il Papini «fra il 1904 e il 1906 cioè nei tempi più felici e agitati del Leonardo, quando stavo ansiosamente interrogando me stesso e i problemi del pensiero e i misteri delle cose. Esso risente per ciò dell'accanito annaspamento di quei giorni...» (pp. VI-VII). E dice giusto: annaspamento. Giacchè in essi la posizione dello scrittore è falsa: egli non guarda se stesso o le cose col proposito e il desiderio di vedersi e vederle come sono, illuminandole d'un raggio del suo spirito ansioso di bellezza, ma — sempre agitato da due stimoli malefici: l'istinto polemico e l'ossessione del nuovo, e, purché nuovo, anche mostruoso, — proiettandole col preconcetto di deformarsi e deformarle, sacrificando ai due idoli della sua più bassa natura le possibilità poetiche e filosofiche di quella migliore che potrebbe sorgere da una diversa posizione mentale e lirica. Perciò il Tragico quotidiano e il Pilota cieco, anche nella nuova edizione riveduta o rimpastata, non riescono che a creare dei paradossi piuttosto banali, certamente tutti dosati a una misura senza neppure illuminazioni improvvise, senza consistenza nè dialettica nè, ciò che è peggio, poetica. Pare, in fondo, che lo scrittore sia uncinato da un suo dolore — l'impossibilità dell'assoluto —, ma questo elemento, che potrebbe dar vita a una creazione poetica, è sacrificato ai falsi idoli; ed è raro che il cuore vinca la volontà (v. Perchè vuoi amarmi?), giacchè anche allora il polemista battuto insiste a metter fuori le punte della sua brutta faccia. E poi non sono che prose scolorite, eguali, monotone, anche a trascurar «l'enfasi lirica» che nota lo stesso Papini, e che, naturalmente, se è enfasi non è lirica, ma retorica del peggior conio tenuta su i trampoli d'una letteratura da gazzettieri, in cui non c'è ombra del buon Papini. Sicchè, in tutti questi libri di novelle l'oppressione di chi filosofeggia per partito preso, e di chi polemizza per necessità di natura, uccide l'artista o meglio, non l'uccide perchè ancora non c'è, ma ne disperde anche l'ombra. Una pagina, o, tutt'al più, un capitolo, bastano per tutti i libri che li ricucinano più o meno male. L'apparente, superficiale novità, non deriva che dalle più recenti letture esotiche dello scrittore: letture franco-russe, troppo note perchè io stia qui a ridirle, che si sformano in un cervello che vuol trarre idee e situazioni modellandosi grottescamente su gli altri. Psicologie false, fantasticherie senza luce, brandelli logori: ecco il finto mondo delle «cangianze» Papiniane. E, in tutte queste pagine, pesa orribilmente una falsa eloquenza, presa a prestito dal D'Annunzio, ma che è anche il male di tutta una generazione e, forse, di tutta l'Italia di questo primo quarto di secolo. La bocca gonfia si sostituisce al vuoto del cervello e del cuore.
   Tuttavia, se questo è il giudizio meditato della prima produzione artistica del Papini, che, a mano a mano che ce ne scostiamo e usciamo dal clima artificioso creatole attorno, difficilmente potrà essere rettificato, bisogna rilevare che un attivo lo presenta, ed è la versatilità di un ingegno, che, svolazzando e sghignazzando, riesce qualche volta a trattenervi con una immagine, un paradosso o un colpo d'acquerello. Si tratta, veramente, di risposi saltuari nella eguaglianza di una prosa polemica tribunizia, che si mantiene inesorabilmente in una sola nota del registro vocale perchè quello interiore non ne ha che una; ma fanno presentire l'artista che non si trova o non riesce a uscire dai cordami di falsi tiranni della sua fantasia. Questi dieci anni di esperienza lo riportano alfine a una relativa meditazione, a un esame di coscienza, e il Papini dà il meglio di sè. Noto che I'Uomo finito in cui è descritto il dramma interiore di un cerebrale, è stato miche troppo esaltato: i critici che amarono il primo Papini lo designarono come il suo capolavoro; quelli che amano il secondo, vi trovarono i germi dell'autore della Storia di Cristo io non mi associo nè agli uni nè agli altri; giacchè in questo libro, c'è tutto il buono e tutto il brutto dell'autore. Il quale ha costantemente tenuto a dichiararsi un uomo e uno scrittore «sincero», mentre — sin qui almeno — è stato sempre falso, anche senza avvedersene; intendendo che nessuna «sincerità» può interessare il critico di un artista, se non sia una autentica «sincerità» artistica. Ma il Papini non è neppure sincero nell'altro senso, cioè di colui che crede veramente in quanto scrive, perchè, trovato un tipo di scrittura, che, per condizioni contingenti, è piaciuto ai frettolosi, ha copiato inesorabilmente sè stesso. Manierato più di così egli non poteva essere. Nell'Uomo finito, però, costretto a un redde rationem di chi lo diceva «finito» per davvero, si concentra meglio, ripensa sè stesso, e dove riesce a vincere l'ossessione polemica, trova voci pure di artista schietto; precipita però nel manierato ogni volta che la polemica ben nota lo riafferra. Questo libro per ciò si sdoppia: vigoroso, ricco di colori e pieno di umanità nella prima parte, in cui l'autore ripensa al suo umile passato di uomo povero, dissetato soltanto dalla purezza divina della sua terra di Toscana, e da un cesto di libri logori trovati in un ripostiglio; fiacco, stinto, manierato quando il finto miraggio del «superuomo» lo riavviluppa in un giro frenetico di parole senza senso. Leggetelo attentamente: resterete, qua e là pensosi, spesso commossi nei capitoli in cui rifà la prima adolescenza, e vi accorgerete che la sua tavolozza ogni qualvolta egli s'immerge nella contemplazione della natura o del sè stesso autentico — onesto senza vigliaccheria e ansioso costruttore d'una vita migliore senza idoli superumani — acquista nuovi toni armoniosi. Anche il taglio della sua prosa fa spesso pensare all'accetta. Più avanti invece ripiomba negli schemi usuali. Tuttavia questa prima tappa è anche un sollievo per il lettore paziente.
   Se non che, oltre al suo istinto polemico, il Papini ha sempre avuto per cattivo genio certi suoi critici amici, e, invece di elevarsi su le ali dell'arte, abbandonandosi all'ispirazione, subito dopo, spinto dal battimani, si mette a fare dell'arte! «Vogliono che sia soltanto poeta. E allora ecco un po' di poesia» (Cento pagine di poesia, 7). E cava i libri dell'arte pura! I quali son tre: Cento pagine, Opera prima e Giorni di festa, cui, ora, si è aggiunto Pane e vino. Ma vedete che razza di polemista egli è, che, ín fondo all'Opera prima, sente il bisogno di allegare alle venti poesie «Venti ragioni in prosa», dove il lettore si trova a tu per tu col poeta in bigoncia, che gli dice con un obbligato crescendo: «Ho potuto dare come «opera prima» una poesia che non è, mi sembra, fatta di spremiture e di rimessiticci d'altre poesie. Credo, insomma, di aver fatto poesia che non somiglia troppo a quella che c'era». Questo è l'uomo: fa della poesia così e così, per partito preso: e, secondo il suo programma, della poesia nuova. «Per me la novità consiste nel portarci una sensibilità (e cerebralità e moralità) nuova; e nel rinnovare il vocabolario perchè di parole (e non di segni tipografici) la poesia è fatta». E come se fosse stato scuro, chiarisce anche meglio il suo metodo: «Arte è, necessariamente, artificio — cioè convenzione e fabbrica, opera di testa e di volontà». Onde scrive che la sua poesia, per aderire a questo criterio manca di «logica discorsiva, oratoria, narrativa ch'è la negazione della logica lirica»; è costruita di versi disuguali per darle «più movimento d'insieme», è rimata, perchè la poesia vera «è fatta di musica messa in parole», ma qui di parole nuove, giacché «l'ideale sarebbe: a poeta nuovo lingua nuova». E, innamorato della tesi, si profonde ancora in spiegazioni: «In poesia la forma è tutto; ma la forma è, in poesia, parola — dunque parole nuove, forma nuova, poesia nuova». E ne formula la ricetta. Per fare della poesia occorrono: «parole molto usate, ma nel loro significato meno usato; — parole usate ma rese, da prefissi e suffissi, quasi irriconoscibili; — parole usate anticamente e ora disusate; — parole tolte alle lingue straniere, ai dialetti, ai gerghi, ai dizionari speciali di classi e arti — di peso o leggermente modificate». Così «sí realizzano insolite armonie di suoni che possono piacere anche indipendentemente dal senso delle parole»; onde l'autore preconizza lingue personali, da cui dovrà nascere una poesia tenebrosa e distinta. S'intende, l'assurdo lo capiva anche lui: «è, spesso, uno sforzo innaturale e volontario — ma non è innaturale (cioè cerebrale) e volontaria tutta l'arte?» In tal modo la poesia veniva ridotta alla boxe e alla chimica: ed era un bel passo, specialmente per quelli i quali, in cerca del nuovo, si opponevano alle famose elencazioni scientifiche ed esotiche del D'Annunzio. Ma codesti, si dirà, son ragionamenti di un pezzo di critica balorda, e il Papini può aver fatto poesia anche contro di essi. E bisogna vedere. Rilevo, intanto, che in Cento pagine la glacialità dell'uomo che cerca la poesia, diventa esasperante, e irrigidisce l'autore contro la sua stessa natura. Scopre, invece, in Giorni di festa una vena più pura, riaccostandosi alla sua terra di Toscana, non soltanto perchè vi sono «ritrovamenti di gioventù d'un'anìma che s'accorse tardi d'esser giovine», ma perchè — com'egli stesso s'avvede — vi porta, se non molto di frequente, come crede, più spesso una «semplice ingenuità», così insolita in lui, specialmente quando si ferma, «invece di volare ín un cielo di segni e di simboli, a pitturare cose e persone della campagna». Confessione preziosa, che può consolidare per bocca dell'autore i giudizi precedenti. Vi è, con tutto l'impressionismo caro al nostro tempo, anche un ritorno, sia pur forzato, all'arte italiana, un immediato accostarsi alla natura, alla nostra gente, e un sospiro verso l'alto. E tutti tre questi libri preparano Pane e vino. Libro che compone i pochi colori dell'arte papiniana come può meglio. Come in ogni libro dell'autore anche qui, lette alcune liriche, difficilmente si trova più innanzi il nuovo, e certo non si trova la poesia. Ma l'inquieto, torbido disfrenato scrittore, si è disciplinato. Secondo il suo solito, nel Soliloquio sulla poesia — dove solo pochi squarci sono della miglior prosa papiniana — dice delle cose dettategli dal suo istinto polemico, teorizzando certe sue credenze d'oggi, e contendendo idee fra loro estranee, con la stessa facilità con cui teorizzò le credenze di ieri. Ma, si sa, tali «pezzi» teorici non interessano la poesia, per quanto influiscano su la poesia del Papini, che ha l'inguaribile male di portare la polemica, il contingente, l'inutile nella contemplazione, nell'eterno. Alcune di queste poesie sono state fortunate. Il ritmo di danza di certe strofe e certe immagini riuscite — che sono tutto il buono di Pane e vino, insieme alla fattura più accurata, se non di tutti, di tanti versi — sono apparsi freschi e originali. Le prime quattro poesie: La sposa, Viola, Gioconda, Regina Silvestre, benchè si somiglino, e contengano qualche verso che non persuade, piacciono anche a me. Ma un libro di versi non si giudica favorevolmente per pochi tocchi e poche strofe; dev'essere, invece, guardato, nell'opera complessiva del poeta, per risaltare meglio pregi e difetti. Sotto questo sguardo, Pane e vino presenta due opposte facce: di debolezza e d'inferiorità rispetto a Opera prima, e di perfezionamento formale di fronte alla stessa. In quelle sue prime poesie — escluso, come abbiamo fatto, il solito sermone raziocinante, e tutto quanto si ricalca volutamente su la tesi — il Papini, con impetuosità dolorosa, fatta più viva e fresca da un tematico sapor di selvaggio, ha scritto alcune belle strofe, esprimenti, nella stessa larva di oscurità che le avvolge, il fondo oscuro del suo spirito irrequieto. E in esse vi erano già, più agresti, e profumati, quasi presi da una pianta che si prepara alla fioritura, i boccioli d'una poesia, scompleta, sì, come tutte le cose del Papini, ma che lasciava pensosi.
   Ma non si può non affermare che, come l'Uomo finito è la prima voce d'un artista sperduto rispetto alle opere precedenti, anche Pane e vino è il primo libro di versi in cui il Papini meglio si ascolta; pare anzi necessario a questo scrittore un lungo periodo di dure esperienze perchè, alta o modesta, trovi la voce della sua coscienza artistica. E non altrimenti gli è accaduto nella sua opera di critico. Per molti anni si è forgiata un'anima di stroncatore, e anche quando la voce del suo cuore lo piegava a esser soltanto un critico onesto e sereno, ha voluto urlare. Ripetendo ancora che le classificazioni sono soltanto esplicative, possiamo dire che anche il terzo gruppo dei libri del Papini presenta i caratteri dei due primi. I 24 cervelli, le Stroncature, le Testimonianze, ecc., preparano insieme colle altre opere, la Storia di Cristo, che unifica come meglio può il lungo sforzo del critico e dell'artista, e gli concede un'altra ora di riposo. Si capisce è un riposo come i precedenti, chè il cattivo genio gli fa scrivere con Giuliotti la sua cosa più brutta: Il Dizionario dell'Omo salvaltico.
   Filosofo si è visto che non è, nè poteva essere; ma egli credette sempre di possedere il genio del critico. E critico si rivelò in molte occasioni. Sfrondate i volumi sopra indicati di molto volontarie stroncature, alcune delle quali sono però veri e propri atti di giustizia e rivolte d'uno spirito insofferente contro fame imposte dall'imbecillità e dalle cricche, e resteranno tante pagine limpide, schiette, che si accostano a pensieri e passioni altrui con virtuose intuizioni d'un poeta in sordina e d'un filosofo mancato che ha la nostalgia delle costruzioni filosofiche. Specialmente in Ventiquattro cervelli alcune pagine sembrano incise. La stessa ripetizione, ritemprata in un cervello inquieto, di certi pensieri, sa di scoltura. Scadenti sono gli altri volumi, Stroncature e Testimonianze, dove la polemica beceraia prende la mano al critico, che, si muove anche ora fra due poli opposti: la rimeditazione di sè stesso e la sfuriata del ciarlatano insultatore; onde scrive, nella meditazione, la Storia di Cristo, nella fobia, il Dizionario dell'Omo salvatico, giacchè non può vivere — o sin qui non ha saputo vivere — diversamente.
   Dire, semplicemente e onestamente, che coe'è la Storia di Cristo dopo le polemiche interessate dei campi avversi, se è difficile, può in compenso essere un atto di giustizia. Uno scrittore cattolico di meriti ben noti come l'Olgiati, commosso dalla «conversione», definì la Storia lo «squillo trionfale», e — guarda dove va a ficcarsi la passione! — trovò modo di lanciare ai due Salvatici «un applauso ed un bacio» nientemeno che per il Dizionario suddetto. Al contrario gli avversari — cioè gli ex-amici del Papini — montarono in bestia, e rimpiansero l'Uomo finito, non trovando nulla d'interessante nella Storia di Cristo. Ma l'interessante c'è. Metto da parte la «conversione», perchè non voglio discuterla, e la ritengo assolutamente sincera. Nè trovo nulla di strano — anzi! — che uno spirito inquieto come quello del Papini, che ha avuto il gusto di imitare Zarathustra, senza sollevare proteste, si fermi commosso dinanzi a Cristo che, ver'igrazia, credo non gli sia inferiore. Prendo quindi la conversione per quella che fermamente mi pare: il ritorno di un uomo a un ideale, che, se fu di Dante, può ben essere di altri più piccoli. Ma purtroppo il Papini è rimasto quello di prima. Il furioso assalitore delle Stroncature riversa anche nella Storia dell'amore divino il suo temperamento impulsivo e la contamina. D'altronde nella Storia di Cristo il Papini risolve il problema centrale della sua anima travagliata, dico meglio, della sua doppia natura di filosofo e di artista in potenza, fra di loro in continua battaglia.
   La Storia di Cristo non è una «storia», perchè storia non può scriverne un temperamento in cui, come ho detto, manca il senso della concretezza umana, e pel quale è assente la obiettività scientifica, che d'altronde non riconosce neppure in teoria. Ma, per contro, è una confessione integrale di Giovanni Papini. Il quale — da filosofo fallito, che ha picchiato a tutti i gabinetti ufficiali e clandestini della filosofia mondiale, e n'è uscito più vuoto e insoddisfatto di com'era entrato —, ha accettato come unica soluzione del problema della vita la soluzione cattolica. Stanchezza, rifugio o vittoria? Si vedrà domani. Ma, evidentemente, più che dei problemi teologici, egli si è interessato del Cristo come eroe dell'umanità, che continuò la sua opera redentrice nel fitto degli odi e delle passioni. E lo ha visto come può vederlo un esaltatore dell'«uomo che volle farsi Dio»: cioè ha visto il proprio Dio, quello che egli medesimo, specialmente nell'Uomo finito, sognò di diventare: il puro, il perfetto, il redentore. E' vero: nell'Uomo finito i valori dell'uomo rispetto al Dio cattolico sono rovesciati; ma nel Dio della Storia di Cristo non c'è che una immagine del super¬uomo, rilustrato nelle acque dosate dell'amore. Non posso fare che qualche richiamo, ma uno basta per tutta l'opera, anche ora che è stata corretta e ricorretta: «Gesù — scrive il Papini — va diritto all'estremo. Non ammette neanche la possibilità d'uccidere; non vuol pensare che vi -sia un uomo capace d'uccidere un fratello. Neppur di ferirlo. Non concepisce nemmeno l'intenzione, la volontà d'ucciderlo. Un attimo solo di rabbia, una sola parola di vituperio; una sola parola d'offesa, equivalgono all'assassinio. Gli spiriti molli e marci grideranno: esagerazione. Perché non v'è grandezza dove non è passione, cioè esagerazione», (pag. 131). Ecco il vero Papini, ed ecco anche una interpretazione, non teologica, sua personale, sia pure sincera (com'io credo) del Cristo. Il Papini non può veder che la redenzione cristiana è amore, cioè dedizione, abbandono di se, rinunzia; ma ne risalta il carattere di esagerazione, di rovesciamento, di paradosso. Ed è questa l'interpretazione sostanziale che dà del Sermone della Montagna. «Il più grande Rovesciatore è Gesù: Il supremo Paradossista, il Capovolgitore radicale e senza paura. La sua grandezza sta qui. La sua eterna Novità è Gioventù. Il segreto del gravitare d'ogni gran cuore, presto o tardi, verso iI suo Evangelo» (p.121). Non c'è che dire: novità, gioventù, paradosso {anche con lettera maiuscola) erano gl'ingredienti della salsa papiniana ora li riconosce in Cristo e dice — nientemeno! — che in ciò sta la


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sua «grandezza», non già nella sua sostanze divina, come dicono i teologi, a meno che questi non convengano nel dichiarare che novità, gioventù e paradosso sono gli elementi costruttivi della divina essenza di Cristo, della divinità stessa. Perciò ne deriva una interpretazione viziata rispetto al soggetto, ma coerente rispetto allo scrittore. Il quale non viene meno al proprio temperamento passionale e polemico neppure dopo una «conversione» più tosto clamorosa, che pertanto, ha valore solamente dal punto di vista religioso, per l'uomo ritornato all'«ovile», non per l'uomo rifatto dal cristianesimo. E' avvenuto infinite volte — anzi è normale — che una «conversione» abbia capovolto i criteri non soltanto filosofici, ma estetici, di molti scrittori; ed è recentissimo il caso, del Borsi, il quale, passando dal paganesimo al cristianesimo. ha, via via, abbandonato, con i principi, le forme pagane, elevandosi ad una mistica contemplazione, che ha generato uno scrittore nuovo, tutto attento nell'analisi sottilissima dell'anima, si che il suo stile si è fatto più acuminato e splendente di una luce che prima gli era sconosciuta. Non così è avvenuto in Papini. Qual'era è rimasto, amante inquieto dell'assoluto e del paradosso, e di tutto ciò che valga a metterlo contro corrente. E' la stessa natura del reclamista, che gli ha impedito di esprimere il sè stesso migliore, che, così, è balenato nella tempesta parolaia e meccanica. Ma, tuttavia, senza nulle aggiungere o modificare dell'autore, la Storia di Cristo è una delle sue opere migliori. Viziata anch'essa dalla retorica — che l'autore chiama eloquenza — e dalla polemica inseparabile da qualsiasi atteggiamento dello scrittore, nonostante il piombo letterario che l'appesantisce, ha squarci d'arte pura e di sentimento profondo. Solo bisogna saperli trovare nella massa troppo greve di un'opera fitta di pagine vuote e sonore. Ma sono squarci che se non denotano certo l'«unghiata del genio», come è iperbolicamente detto, additano lo scrittore ancora vivo, che ha da dire altre cose, ora che, ritornato alla fonte genuina della tradizione nazionale, sembra anche per serenità, meglio disposto a intenderla; purché non lo rimolestí il demonietto stolto e volgare dell'Omo salvatico, che è semplicemente una brutta maschera, che deforma l'uomo e lo scrittore.
   Ritrovarsi, del resto, è sempre stato, e resta, il problema centrale per Giovanni Papini, il quale ha invece preferito -- o è stato costretto dalla sua impotenza — perdersi in problemi secondari, marginali, fuori strada, onde più difficili e costosi sono riusciti i rapidi momenti di ritrovamento.
   E potrei far punto. Ma qui, volendo dare una cifra totalitaria del bilancio fatto, m'ha preso lo scrupolo o il demonietto d'ogni critico di vedere ciò che ne scrissero alcuni suoi «amici» più autorevoli come Prezzolini e Pancrazi. Escludo da qualsiasi considerazione critica certi scritti parziali, frutto di preconcetti elogiastici o agrodolci, molto in uso fra noi, e mi fermo al saggio del Prezzolini, Col quale il mio discorso ha molti punti di contatto (involontari, ma piacevoli, almeno per me) e molti altri di divergenza. Confesso che mi è sembrato assai rimarchevole (ciò che avviene anche in un paio di articoli di Pancrazi) che il Prezzolini, volendo dar risalto a certe qualità artistiche del Papini, si sia dovuto sobbarcare a una discriminazione «biblica» di frasi e di parole dalla quale non so davvero se l'artista ne esca ingrandito o di molto rimpicciolito. Se meriti artistici son quelli indicati del Prezzolini il Papini non è un artista neppure mediocre. Nè io posso ripetere il giudizio conclusivo, troppo affrettato e non poco incoerente, che il critico fiorentino (Pur tanto giudizioso nello sviluppo del suo discorso) ha dato di questo tipico rappresentante della nostra generazione. In esso c'è un limite superato, che lo rende ingiusto verso il nostro tempo; e bisogna rientrare nei termini dell'equità. «Papini — egli scrive — è essenzialmente un artista e i suoi libri vanno valutati col metro dell'arte». E aggiunge: «E' l'artista più significativo della nostra generazione: supera tutti in virtù e in difetti». Ora che il Papini sia soltanto un temperamento artistico, e che ogni altro suo atteggiamento è fallace, è dimostrato; ma dimostrato è anche il fallimento di quella parte (che è la maggiore) dell'opera sua a sfondo pseudo-filosofico. Che sia il più significativo artista della nostra generazione, l'ho già ammesso e discusso sin da principio; ma è falso che «superi tutti in virtù». Io non so come il Prezzolini, dopo la sua minuta analisi dell'arte papiniana, sbricciolata, ridotta a «pezzetti» antologici, abbia potuto superare il limite dell'obiettività verso altri artisti — benchè pochini — della nostra generazione. Il Papini è — o è stato — il tipico rappresentante dell'aspetto forse saliente del nostro tempo, di quell'aspetto, cioè, disordinato, ansioso del nuovo e precipitoso; ma che la sua voce di artista si sollevi su quella di tutti gli altri, è un abbaglio, cui indirettamente credo di aver già risposto. E' vero, invece, che il suo nome è salito in gran fama più del nome di altri artisti; ma il merito è nei «difetti», non nei pregi dell'opera sua: cioè nell'assalto polemico e nelle circostanze storiche in cui è avvenuto. E' vero altresì che tutti i difetti del nostro tempo, i peggiori certamente, si riflettono nell'opera papiniana, deturpandola e impoverendola. In questo senso la figura del Papini assume un carattere storico di maggior risalto, giacchè sta al centro della crisi della nostra inquieta generazione, in cerca d'una via o d'una fede; beninteso, però, che non la riassume tutt'intera, avendo essa molteplici aspetti ed essendo più grandi i suoi valori artistici. E ciò per nostra fortuna, ma non per merito del Papini.


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